CHA-DO (La "via" del tè)

YKIAT - Storia del Giappone
Breve storia del tè in Europa e America
La prima menzione del tè di cui si abbia notizia in Europa, si trova nelle indicazioni di un narratore arabo che afferma che, dopo l’anno 879, le maggiori entrate della città di Canton erano dovute alle tasse sul tè e sul sale. Marco Polo parla della destituzione, avvenuta nel 1285 in Cina, di un ministro delle finanze responsabile di un aumento arbitrario delle tasse sul tè.
Però è solo nell’epoca delle grandi scoperte che l’Europa cominciò a sapere qualcosa di più preciso su quanto avveniva nell’Estremo Oriente.
Verso la fine del sedicesimo secolo gli Olandesi portarono la notizia di una gustosa bevanda che veniva preparata in oriente con le foglie di un arbusto.
I viaggiatori: Ramusio (1559), Almeida (1576), Maffeno (1588), Tareira (1610), parlano anche loro del tè.
Le navi della Compagnia olandese delle Indie nel 1610 portarono in Europa il primo tè, che fu poi introdotto nel 1636 in Francia e nel 1638 in Russia.
La bevanda orientale giunse nel 1650 in Inghilterra che la giudicò: “una bevanda eccellente, consigliata da tutti i medici cinesi, che viene chiamata Teha e le altre nazioni chiamano Tay o Tee”.
Come per ogni buona cosa anche la propaganda del tè incontrò una fiera opposizione. Eretici come Hemery Saville (1678), la denunciarono all’opinione pubblica tacciandola di essere “un’impura sostanza”. Jonas Halway (nel suo Saggio sul Tè del 1765) afferma che l’uso del tè fa diminuire gli uomini di statura e li fa diventare volgari, così come imbruttisce le donne.
Inizialmente l’alto costo del tè (che veniva venduto ad un prezzo variante dai 15 ai 16 scellini per libbra) impedì all’esotica bevanda di conoscere una vasta diffusione e contribuì invece a farla diventare un piacere riservato “alle feste e ai ricevimenti del gran mondo, adatto unicamente per essere sorbito da principi e aristocratici”.
Nonostante tutto l’usanza del tè si diffuse con rapidità straordinaria.
Già verso la prima metà del secolo diciottesimo, i caffè londinesi si erano in effetti trasformati in case da tè ed erano divenuti luoghi  di incontro per spiriti nobili.
Ben presto il tè entrò a far parte dei bisogni quotidiani di un numero di persone sempre maggiore e dunque divenne anche merce tassabile.
Va ricordata infatti l’importanza che il reddito ricavato dalle imposte sul tè ha avuto nella storia mondiale: l’America sopportò l’oppressione coloniale fino a quando, non essendo infinita la pazienza dell’uomo, insorse contro le pesanti tasse che gravavano sul commercio del tè. L’indipendenza degli Stati Uniti d’America cominciò il giorno della distruzione delle casse di tè avvenuta nel porto di Boston.
Il tè in Giappone
Il tè in Giappone fu portato da monaci buddisti, restando pertanto fin dal principio intrinsecamente legata la sua cultura con quella zen/buddista.
Fin dall’anno 729 si legge che l’Imperatore Shomu offrì il tè a cento monaci convenuti nel suo palazzo a Nara.
Nell’801 il monaco Saicho portò alcuni semi di questa pianta  e li piantò nel Yeisan.
Nei secoli successivi ci sono cenni e notizie riguardo a diverse piantagioni di tè e al gusto che aristocratici e monaci provavano nel sorbire questa bevanda.
Il tè Sung arrivò in Giappone nel 1191, al ritorno di Eisai Zenji, che si era recato a studiare presso la scuola Zen della Cina meridionale. I nuovi semi che il monaco aveva portato vennero piantati in tre luoghi diversi e i risultati furono ottimi, in modo particolare nel distretto di Uji, nei pressi di Kyoto, famoso ancora oggi per essere il luogo dove sembra cresca il tè migliore del mondo.
La scuola Zen meridionale si diffuse con enorme rapidità in tutto il Giappone e con essa anche i rituali e gli ideali del tè, come venivano espressi nella dinastia Sung.
Nel quindicesimo secolo, sotto il patronato dello shogun Shikaga Yoshimasa, il cerimoniale del tè è ormai interamente fissato e costituito nella sua forma indipendente. Da quel momento il “Teismo” si è definitivamente e pienamente stabilito in Giappone.
E’ proprio nel cerimoniale giapponese che gli ideali del tè raggiungono la più elevata razionalizzazione.
Alcuni cenni storici della cerimonia del tè
Come si è detto in origine il tè è stato strettamente connesso alle pratiche dei monaci zen/buddisti e da questi veniva usata come medicina: notevoli infatti erano i benefici, sia in termini di valore stimolante, sia per il solo fatto di bere acqua bollita, quindi sterilizzata.
Ai tempi del più famoso Maestro del tè: Sen no Rikyu ( a cui è stato anche dedicato un film “Morte di un maestro del tè”, interpretato magistralmente da Toshiro Mifune), la cerimonia del tè o “cha no yu”  non aveva ancora assunto la codificazione in un cerimoniale, bensì rappresentava un momento di pausa dalla battaglia.
I guerrieri che vivevano a contatto con la morte e guardando in faccia la propria morte, si ritagliavano un momento di pausa, che doveva essere assolutamente “lussuoso e ricercato” e per trascorrerlo crearono una capanna.
Pertanto, in origine, sarebbe più corretto parlare di “arte del tè” o Wabi cha, e solo a seguito di una codificazione del rituale, ad opera dei grandi Maestri del Tè (Murata Shuko e Takeno Joo) si cominciò a parlare di “Cerimonia del Tè” o “Cha do” (la “via” del tè).
Per tutto il 1500 il Giappone fu devastato da guerre civili su tutto il territorio, tale periodo venne infatti chiamato “Sengoku jidai”, il “periodo del paese in guerra”.
A partire quindi dal 1582, con l’ascesa al dello shogun Toyotomi Hideyoshi, e fino alla sua morte nel 1598, si ebbe la codificazione del “Cha no yu”, per merito di Sen no Rikyu, maestro del tè, artista, poeta e filosofo.
La fine di questo storico personaggio fu tragica, morì infatti facendo “seppuku” (taglio rituale dell’addome) ordinatogli proprio dal suo allievo e signore Toyotomi Hideyoshi.
Sono state date molte interpretazioni su questa fine, al vero molto controversa, tant’è che lo stesso Hideyoshi un paio d’anni dopo la morte di Rikyu, riabilitò tutta la sua famiglia, ma la versione più probabile pare essere quella che, poiché i maestri del tè ricevevano nella “stanza del tè” i nobili e le loro confidenze, rimanevano quindi spesso coinvolti, a volte loro malgrado, in complotti per la conquista del potere.
Anche l’allievo di Sen no Rikyu, Furuta Oribe morì infatti tramite seppuku ordinatogli dall’avversario di Hideyoshi, Tokugawa Ieyasu, nel frattempo salito al potere.
Erede di Oribe fu Kobori Enshu che diffuse il cha no yu presso l’aristocrazia giapponese.
Oggi in Giappone esistono quattro principali scuole di cha no yu: la prima segue la tradizione iniziata da Furuta Oribe (Oribe ryu), le altre tre originano da discendenti (nipoti) di Sen no Rikyu, e sono le scuole Omotesenke, Urasenke e Mushanokojisenke.
La cerimonia del tè 
Nell’avvicinarci alla cerimonia del tè non si può esimersi dal fare una breve premessa per introdurre alcuni concetti determinanti della storia e cultura giapponese, a cui faremo solo un accenno, essendo troppo lungo e complesso addentrarci nelle radici storico culturali ad esse legati.
Un aspetto peculiare di tale mondo è infatti il valore attribuito alla “forma” o “kata” o “shikata”. Questa è una delle parole più importanti e comuni nella lingua giapponese.
In questo contesto l’attenzione, è posta sulla “forma” e significa “il modo di fare le cose”. E’ composto dal radicale “shi” che è una combinazione di “supporto” e “servire”, con il connotato che un inferiore supporta e serve un superiore, e il termine “kata” che viene tradotto con “forma”, o “modo”.
L’utilizzo è così vasto da rendere impossibile trovare un’area nel modo di pensare giapponese o nel comportamento che non venga influenzato da uno o più “kata”.
I “kata” quindi, sotto il profilo tecnico, sono una serie di movimenti preordinati e codificati che evidenziano dei “principi”.
Sotto il profilo interiore invece, tale esercizio mostra la capacità del praticante di “vivere il kata”, di far vibrare le corde più profonde del proprio corpo esercitando l’autocontrollo sulla respirazione e ricercando l’efficacia delle tecniche, armonizzandosi così in qualcosa di più che un semplice schema.
Il kata quindi, quale parte integrante della vita giapponese, esprime una tradizione tecnica insieme a una tradizione culturale, proponendosi di fondere, attraverso la respirazione, la componente fisica e quella mentale, eseguendo una predeterminata sequenza di gesti per raggiungere una più elevata condizione spirituale.
Nelle arti marziali, ed in particolare nell’Aikido ciò risulta particolarmente evidente ed emozionante, mentre, più etereo e sofisticato risulta nella cerimonia del tè, ma la forza del kata, che sia nell’Aikido o nella cerimonia del tè, se praticato correttamente, oltre ad insegnare l’etichetta, insegnano la pazienza, la resistenza e la precisione, ottenendo un effetto calmante sui nervi e sulle emozioni, facilitando quindi la ricerca dell’armonia con se stessi e con il mondo circostante.
 
A quanto detto aggiungiamo un breve cenno in merito al concetto giapponese di estetica, che non è mai slegata dal concetto di etica e di filosofia.
Non quindi dicotomia tra “arte” e “vita” come in occidente, bensì  un’unione che esprime come: “l’arte sia vita”.
La base quindi dell’estetica giapponese, potrebbe essere, così riassunta:
Sabi: ovvero la bellezza delle cose segnate dal tempo. Un vecchio parquet, una vecchia ciotola di ceramica, un vecchio libro, ma anche, allo stesso modo, un gesto che esprima valori antichi.
L’eleganza del sabi è determinata dalla capacità di trasmettere, in modo discreto, i valori e le emozioni legate all’oggetto o al gesto. Il sabi è legato alla penombra ed alla quieta discrezione, delle quali, per esempio, i gesti del cha no yu è impregnato.
Wabi: ovvero la semplicità. Il canone estetico di wabi fa affermare al gusto tradizionale giapponese che l’accostamento tra bianco e nero è in assoluto, il più elegante.
Se si guardano le realizzazioni dell’arte giapponese, si rimane stupiti della loro linearità essenziale. Wabi è quindi il gusto delle cose semplici, l’esaltazione del valore della frugalità, l’attenzione per l’essenziale, il fastidio per il superfluo.
Yugen: ovvero la bellezza del gesto. Chiunque osservi qualcuno compiere dei gesti (da gesti della vita quotidiana, a gesti rituali in occasioni di cerimonie, a gesti tecnici), comprende che ci sono diversi livelli di esecuzione. Dall’incertezza del principiante si passa alla sicurezza, quasi sfrontata, del giovane esperto, per terminare con la naturalezza e la totale mancanza di ostentazione del Maestro. In questa naturalezza e in questa totale mancanza di ostentazione risiede lo yugen, l’eleganza del gesto assolutamente naturale, compiuto nel modo più corretto e nel tempo più giusto, irrealizzabile se non dal Maestro o da colui abbandona per un attimo se stesso per lasciarsi condurre da ciò che sta facendo.
Mono no aware: ovvero la commozione delle cose, o la comunanza con le cose. Questo sentimento nasce come affermazione di sensibilità e dell’amore per la vita nella cultura samurai, nella quale la bellezza delle cose è percepita in rapporto al valore dominante della caducità. Il mono no aware porta a cercare una comunanza con le cose che possa sfuggire alla fugacità della vita; conduce alla sensibilità nei confronti del dettaglio e del particolare, utilizza l’attenzione come mezzo per esprimere compassione, ossia, come vuole l’etimo latino, la capacità di provare un sentimento comune.
La cerimonia del tè è quindi un momento elevato della vita, in origine riservato a pochi.
Un rituale sociale finalizzato all’educazione dell’individuo.
Un modo sano per far conoscere la bellezza e impartire, a traino di quella, lezioni di carattere etico e filosofico.
I modi e i tempi della cerimonia del tè sono strettamente determinati, come pure l’arredamento con cui è ordinata la stanza.
Nel ripetere le parole di prammatica o nel compiere gesti codificati da secoli par quasi ci si voglia spersonalizzare, prender parte a una forma prefissata per sempre che ci permette di vivere un rapporto senza tempo con la storia. La Casa del Tè sarà allora una sorta di laboratorio spaziale in cui si sperimenta il vuoto interiore: “trovare una serenità duratura in noi stessi, in compagnia d’altri: questo è il paradosso”.
Gli stessi caratteri cinesi originari della “stanza del tè” (sukiya) significano “Dimora della Fantasia”, successivamente i diversi Maestri del tè sostituirono i caratteri cinesi in base alla propria concezione della stanza del tè. Il termine sukiya può anche significare quindi “Dimora del Vuoto” o “Dimora dell’Asimmetrico”.
E’ Dimora della Fantasia in quanto struttura effimera, costruita per ospitare un impulso poetico.
E’ Dimora del Vuoto in quanto priva di ornamenti, a eccezione di quel che vi può essere collocato per appagare un’esigenza estetica contingente.
E’ Dimora dell’Asimmetrico in quanto consacrata al culto dell’Imperfetto: si lascia volutamente qualcosa di incompiuto affinché sia l’immaginazione a completarlo.
La Cerimonia del tè sarà quindi la ricerca dell’equilibrio perfetto tra passato e futuro: un passato al quale si deve prima di tutto rispetto e che viene vissuto con nostalgia, e un futuro carico di incertezze e pericoli, ma allo stesso tempo affascinante perché pieno di possibili promesse e aspettative.
Ecco quindi che l’oggi, l’adesso, diventa un istante e per questo il tempo viene dilatato attraverso la ricerca di un gesto perfetto, un gesto che il più possibile ci porta ad una comunanza con la natura: dai sapori, ai colori, ai suoni, ai profumi e, sopra a tutto, ai gesti.
E questa natura sarà quindi vissuta come la rappresentazione perfetta, sempre presente, dell’effimero, vissuto come eterno.
Non quindi una “casa dell’utopia” o “una fuga dalla realtà”, ma al contrario, una perfetta identificazione con la realtà, nella piena consapevolezza ed armonia.
Lo svolgimento della cerimonia
Essendoci diverse scuole, vi sono vari modi di celebrare la cerimonia del tè, ma tutti condividono gli stessi elementi essenziali.
La casa del tè (sukiya) comprende una sala per il tè (chashitsu) e una stanza per la preparazione (mizuya), una sala d’attesa (yoritsuki) ed un sentiero (roji) che, attraverso il giardino, porta fino all’ingresso della casa del tè.
La casa è generalmente situata in un angolo del giardino particolarmente boscoso.
Tutto il giardino viene curato dal Maestro del tè, per aiutare l’invitato che percorre il sentiero (simbolicamente la “via”, ma anche un modo per lasciare alle spalle il mondo esterno)  ad armonizzarsi più facilmente con la natura e la meditazione.
I principali utensili, generalmente dei veri e propri oggetti d’arte, spesso costruiti o disegnati dallo stesso Maestro, sono: la ciotola per il tè (chawan), il contenitore del tè (chaire), il frullino di bambù (chashaku).
Sono da preferire abiti con colori discreti. Nelle occasioni di grande solennità, gli uomini portano un kimono decorato con lo stemma familiare e le bianche calze giapponesi (tabi).
Le donne indossano lo stesso abbigliamento.
Gli invitati devono portare con sé un piccolo ventaglio (sensu), un pacchetto di fazzolettini di carta di riso (kaishi) e un coltellino (kashikiri) per mangiare il dolce, il tutto contenuto in un borsellino (kaishiire).
La cerimonia del tè comprende di solito una prima parte, nel corso della quale viene servito un pasto leggero, ma estremamente curato ed elegante, di sette portate (kaseiki).
Al pasto segue un breve intervallo (nakadachi), fa quindi seguito la parte principale della cerimonia (goza iri), durante la quale viene servito un tè denso (koicha).
A questa, dopo un secondo intervallo, segue l’usucha, durante la quale viene servito un tè meno denso del precedente.
L’intera cerimonia dura circa quattro ore, e solitamente gli invitati sono al massimo cinque.
Gli invitati, che su invito del Maestro, dopo aver bevuto il tè denso si erano ritirati su una panchina nel giardino, all’esterno della sala da tè, vengono richiamati dal suono del gong sospeso vicino alla sala, per indicare che la cerimonia sta per iniziare.
L’uso vuole che egli colpisca il gong da cinque a sette volte.
Gli invitati si alzano in piedi ed ascoltano attentamente, poi, dopo aver ripetuto il rito della purificazione alla vasca piena d’acqua (si bagnano le mani e la bocca), entrano di nuovo nella stanza, attraverso la bassa porta che obbliga ad inginocchiarsi, in segno di umiltà.
Entrando chiedono permesso (shitsurei shimasu), salutano il Maestro (sensei: connichiwa) e gli altri ospiti (minasan: connichiwa), poi ammirano il tokonoma e il kama, infine prendono posto rispettando un rigoroso ordine gerarchico (più vicino al Maestro siederà l’ospite più importante e così via).
I pannelli di bambù, sospesi all’esterno davanti alle finestre vengono ritirati da un assistente al fine di illuminare l’ambiente.
Nel tokonoma (nicchia nella stanza da tè) il kakejiku (pannello di seta o carta di riso dipinto a mano) viene sostituito da una composizione di fiori molto semplice e in armonia con la stagione (chabana).
Il recipiente per l’acqua fresca (mizusashi) e la scatola del tè (usuchaki o natsume) in lacca giapponese (urushi) o bambù sono al loro posto prima che il Maestro entri, portando la ciotola per il tè (chawan) contenente un piccolo telo bianco di lino (chakin), il frullino di bambù (chasen) e il cucchiaino per il tè (chashaku), anch’esso in bambù.
Gli invitati guardano ed ammirano i fiori ed il bollitore (kama), come avevano fatto all’inizio della cerimonia.
Il Maestro si ritira nella stanza per la preparazione e ritorna quindi con un recipiente per l’acqua di scarto (kensui), il mestolo (hishaku) e un appoggio per il mestolo (futaoki).
Pulisce poi la scatola del tè e il cucchiaino con il telo (fukusa) colorato (rosso o arancio per le donne, viola per gli uomini) e lava il frullino nella ciotola del tè contenente acqua calda presa dal bollitore con il mestolo.
Vuota quindi la ciotola, versando l’acqua nel recipiente vuoto che aveva portato in precedenza e l’asciuga con il telo di lino.
Quindi prende la scatola del tè e con il chashaku versa nella ciotola due cucchiaini di tè verde in polvere (matcha).
(Nella cerimonia usucha vengono usate le giovani foglie di piante che non hanno più di tre o cinque anni, mentre nella cerimonia koicha vengono usate giovani foglie di piante che hanno da venti a settant’anni e anche più.)
Poi prende un mestolo di acqua calda dal bollitore e ne versa circa un terzo nella ciotola e il resto di nuovo nel bollitore.
Infine rimescola con il frullino fino a che non si amalgama, diventando una bevanda verde.
Il Maestro invita quindi l’ospite principale a servirsi del dolce con la formula rituale:
okashi o dozo” (servitevi del dolce, prego).
Il primo invitato si scusa con il vicino e gli chiede il permesso di servirsi per primo:
osakini”. Poi dice “okashi choodai itashimasu” (chiedo di prendere il dolce), prende le bacchette (hashi) e le appoggia sul tovagliolino, apre il coperchio della scatola dei dolci e ne prende uno con gli hashi, lo appoggia sul tovagliolo e lo mangia con l’aiuto del coltellino. Infine chiude la scatola e la passa al vicino.
Successivamente il Maestro offre la tazza di tè.
L’ospite va a prendere la tazza, la porta dinnanzi a sé e poi, spostandola alla sua destra dice: “oshiooban itashimasu” (prendo anch’io). Spostandola poi a sinistra chiede scusa al vicino se prende prima lui (osakini), infine la pone dinnanzi a sé e dice “otemae chodai itashimasu” (prendo il tè che mi ha preparato); il Maestro risponde con un piccolo inchino di approvazione.
Alza la tazza in segno di ringraziamento, e la fa ruotare per esporre la parte più bella (shomen) verso il Maestro (teishu), dopodiché beve con tre brevi sorsi esprimendo il suo gradimento.
Poi pulisce il bordo della tazza con le dita, la ruota in senso inverso e la posa dinanzi a sé, si pulisce le dita con il tovagliolino e osserva con interesse la tazza in tutte le sue sfaccettature, quindi la riporta dal Maestro che la pulisce per la preparazione successiva.
La cerimonia procede con gli altri ospiti, fino a quando tutti hanno bevuto il tè.
Alla fine gli ospiti ricevono il permesso di esaminare gli utensili. Il primo ospite pronuncia la frase di rito: “onatsume to ochashaku no haiken o” (chiedo il permesso di esaminare gli utensili: il contenitore del tè “natsume” e il cucchiaino di bambu’ “chashaku”).
Il permesso viene accordato ed a turno gli ospiti prendono gli utensili e li osservano attentamente.
Per ultima viene osservata la tazza, rigirandola tra le mani e chiedendo informazioni sul maestro che l’ha creata, l’epoca e lo stile.
Al Maestro o teishu può venir richiesto se intenda dare un nome poetico (mei) al chashaku e lui a questo punto può citare una poesia o un verso o semplicemente fare riferimento alla stagione in corso.
Molto indicati sono i kigo , cioè i riferimenti stagionali contenuti nell’ultimo verso di un haiku (composizione poetica di diciassette sillabe), quindi frasi come aki no kure (sera d’autunno) oppure momo no hana (fiori di pesco) e così via.
La cerimonia si conclude col Maestro che porta via gli strumenti, ripristina l’acqua nel suo contenitore, si inchina profondamente all’unisono con gli ospiti e richiude la porta scorrevole dalla quale era entrato.
Gli ospiti, uscendo uno alla volta, ringraziano con le parole e i gesti di rito, simili a quelli dell’ingresso.